Domani finalmente sarà Sabato e molte persone potranno riposare un po’, godersi quello scorcio di vita che il lavoro lascia al tempo libero. Le famiglie inizieranno la giornata svegliandosi più tardi, magari col progetto di una piccola gita fuori porta o di una bella giornata al mare. Le aspettative di un’intera settimana si concentrano in due giorni in cui la mente si svaga e il corpo ritrova le sue funzioni vitali. Spesso però il sabato e la domenica assistiamo a file interminabili di auto, che intasano le strade per andare a trovare un po’ di refrigerio nei centri commerciali. L’inventore di questi nuovi campi di concentramento è stato veramente geniale, ha distribuito negozi, supermercati e anche piccole zone ricreative nello stesso posto. In questo modo è facile trovare tutto quello di cui si ha bisogno.
Un piccolo mondo a misura d’uomo, un Truman Show personale nel quale ci sentiamo protetti e coccolati. Ricordo i primi centri commerciali, piccoli, separati da altri palazzi e quasi sempre con parcheggi esterni e dislocati. Oggi invece tutto sembra essere studiato a tavolino, come i più formidabili piani regolatori. Milioni e milioni di blocchi di cemento posati ad arte per distruggere tutto quello che rimane di un mondo privo di verde. Parcheggi interrati, livelli e livelli di alienazione umana. Non è sufficiente ricordare il posto auto in cui si parcheggia, bisogna tener presente anche la lettera, il codice alfanumerico, la posizione geostazionaria e quant’altro. Facciamo chilometri e chilometri di code per entrare nel paese dei balocchi e spendiamo quel poco che l’economia ci lascia, per dar sfogo a quello che ancora ci sembra essere libertà di scelta.
Ci sono lavoratori da 50 ore lavorative a settimana, manager e consulenti, che spendono metà stipendio perché è l’unico modo per compensare un disagio profondo con la vita, lo shopping sembra essere l’unica cosa che riempie il grigio sabato pomeriggio. Anche i bambini sembrano drogati, vogliono vedere tutto, comprare tutto, il gelato, la pizza, le patatine, le caramelle, come se tutto fosse lecito e per una volta permesso. Non sono contro i centri commerciali per principio, sono contro la mercificazione dell’uomo e della sua continua alienazione. Perdiamo ore in posti malsani e lugubri per sentirci vicini ad altre persone che come noi vagano senza meta.
Ci sembra di essere in tanti e questo ci rende felici, anche se poi siamo pronti a inveire su una signora che ci ruba il carrello o ci passa avanti alla cassa. Che tipo di uomini stiamo diventando? L’ "homo consumisticus", un uomo che intasa e si stressa nei parcheggi e nelle tangenziali per correre nel centro commerciale più grande d’Europa. Ogni mese sembra aprirne uno nuovo, il doppio più grande del precedente, che già era tremendamente enorme. A volte anche io vengo risucchiato da questa pratica, come attratto dal canto delle sirene. Mi lascio abbindolare per un’oretta e poi maledico il tempo perso e l’inadeguatezza di una vita non più a misura d’uomo. Penso alla fine alla bottega vicino casa, al povero commerciante che ha ereditato il negozio dal padre, che a sua volta lo aveva ereditato da suo padre e mi riempio di tristezza.
Sono triste perché nessuno compra più nulla nella bottega, nessuno parla più con l’addetto alla gastronomia che ti consiglia le cose più buone da comprare, magari fatte in casa o prodotte localmente. Sono triste anche perché quando mangio una mela o un’arancia mi devo chiedere da quanto tempo è stata staccata dall’albero e quante celle frigo ha passato, prima di arrivare, dopo migliaia di chilometri, nella mia bocca. Non mi resta che far spesa alle due di pomeriggio, quando tutti sembrano ancora assuefatti dagli effetti del pranzo, per non entrare nel circolo vizioso dello sport preferito dagli italiani, la passeggiata al centro commerciale.
Un piccolo mondo a misura d’uomo, un Truman Show personale nel quale ci sentiamo protetti e coccolati. Ricordo i primi centri commerciali, piccoli, separati da altri palazzi e quasi sempre con parcheggi esterni e dislocati. Oggi invece tutto sembra essere studiato a tavolino, come i più formidabili piani regolatori. Milioni e milioni di blocchi di cemento posati ad arte per distruggere tutto quello che rimane di un mondo privo di verde. Parcheggi interrati, livelli e livelli di alienazione umana. Non è sufficiente ricordare il posto auto in cui si parcheggia, bisogna tener presente anche la lettera, il codice alfanumerico, la posizione geostazionaria e quant’altro. Facciamo chilometri e chilometri di code per entrare nel paese dei balocchi e spendiamo quel poco che l’economia ci lascia, per dar sfogo a quello che ancora ci sembra essere libertà di scelta.
Ci sono lavoratori da 50 ore lavorative a settimana, manager e consulenti, che spendono metà stipendio perché è l’unico modo per compensare un disagio profondo con la vita, lo shopping sembra essere l’unica cosa che riempie il grigio sabato pomeriggio. Anche i bambini sembrano drogati, vogliono vedere tutto, comprare tutto, il gelato, la pizza, le patatine, le caramelle, come se tutto fosse lecito e per una volta permesso. Non sono contro i centri commerciali per principio, sono contro la mercificazione dell’uomo e della sua continua alienazione. Perdiamo ore in posti malsani e lugubri per sentirci vicini ad altre persone che come noi vagano senza meta.
Ci sembra di essere in tanti e questo ci rende felici, anche se poi siamo pronti a inveire su una signora che ci ruba il carrello o ci passa avanti alla cassa. Che tipo di uomini stiamo diventando? L’ "homo consumisticus", un uomo che intasa e si stressa nei parcheggi e nelle tangenziali per correre nel centro commerciale più grande d’Europa. Ogni mese sembra aprirne uno nuovo, il doppio più grande del precedente, che già era tremendamente enorme. A volte anche io vengo risucchiato da questa pratica, come attratto dal canto delle sirene. Mi lascio abbindolare per un’oretta e poi maledico il tempo perso e l’inadeguatezza di una vita non più a misura d’uomo. Penso alla fine alla bottega vicino casa, al povero commerciante che ha ereditato il negozio dal padre, che a sua volta lo aveva ereditato da suo padre e mi riempio di tristezza.
Sono triste perché nessuno compra più nulla nella bottega, nessuno parla più con l’addetto alla gastronomia che ti consiglia le cose più buone da comprare, magari fatte in casa o prodotte localmente. Sono triste anche perché quando mangio una mela o un’arancia mi devo chiedere da quanto tempo è stata staccata dall’albero e quante celle frigo ha passato, prima di arrivare, dopo migliaia di chilometri, nella mia bocca. Non mi resta che far spesa alle due di pomeriggio, quando tutti sembrano ancora assuefatti dagli effetti del pranzo, per non entrare nel circolo vizioso dello sport preferito dagli italiani, la passeggiata al centro commerciale.